Draghi diventa mister rinvio: la vulgata, dopo il fallimento della scalata al Quirinale, raccontava di un Mario Draghi che, «costretto» per un altro anno a Palazzo Chigi, avrebbe governato senza più guardare in faccia a nessuno.
Draghi diventa mister rinvio. Avrebbe cioè abbandonato quella logica della mediazione e del rinvio che avevano contrassegnato gli ultimi mesi del 2021, proprio per non inimicarsi nessuno nella partita della presidenza della Repubblica. A corroborare questa tesi, anche le prime parole pronunciate pubblicamente dopo la rielezione di Mattarella, quel perentorio «un lavoro so trovarmelo da solo» che, neanche tanto tra le righe, tratteggiava un premier pronto a cambiare aria se solo i partiti della sua riottosa maggioranza si fossero messi nuovamente a rumoreggiare troppo sulle scelte del governo.
La realtà, però, ha raccontato un’altra storia. La querelle sulle spese militari, in particolare, avrebbe costituito l’alibi perfetto per far saltare il banco. Gli ingredienti c’erano tutti: un leader che per chiare necessità di consenso metteva in discussione una scelta diplomatica fondamentale – dopo averla avallata alla Camera – in un momento delicatissimo sul fronte internazionale. Draghi avrebbe potuto persino forzare la mano se avesse ascoltato le voci che – da Pd e Lega – invitavano a non cedere ai ricatti «perché tanto anche senza il Movimento 5 stelle i numeri ci sono lo stesso».
Invece il premier ha ceduto al pressing di Giuseppe Conte e ha avallato la più classica delle mediazioni. Obiettivo del 2% del Pil da destinare alle spese militari rinviato al 2028. Che non è il 2030 chiesto da Conte, ma neanche quel 2024 per il quale l’Italia si era impegnata con la Nato. Al punto che ora potrebbero risultare indebolite le pretese di Roma di ottenere, il prossimo anno, la poltrona più importante dell’Alleanza Atlantica.
Le ragioni della retromarcia di «SuperMario» potrebbero essere diverse
Il senso di responsabilità che impone di non lasciare il Paese senza guida nel mezzo di una gravissima crisi internazionale, magari. La consapevolezza che, a dispetto di quanto sostengono alcuni partiti, non è affatto detto che la diserzione dei grillini non avrebbe minato la stabilità del governo, pure. E probabilmente anche la «moral suasion» di Mattarella, primo alfiere delle stabilità.
Fatto sta che la retromarcia di Draghi ha dimostrato come il premier «tecnico» stia imparando sempre di più a comportarsi da «politico». Una tendenza che, analizzando nel dettaglio i quasi 14 mesi a Palazzo Chigi dell’ex presidente della Bce, è in realtà presente fin dall’inizio. La prima proposta che Draghi è stato costretto a rimangiarsi è stata quella di far recuperare d’estate agli studenti le lezioni perse a causa del Covid. Fu ipotizzato durante le consultazioni, poi il fuoco incrociato dei partiti fece sì che l’idea non sopravvivesse neanche fino al giorno del giuramento.
Poi è stata la volta della riforma fiscale «da non realizzare a pezzetti» (come è stato invece poi fatto); o del catasto da riformare (ci si è limitati a una mappatura e il compito di cambiare le tasse toccherà a chi governerà nel 2026); o del superamento della legge Fornero (invece si è provveduto a uno «scalino» di transizione per riparlarne l’anno prossimo); dell’addio al «Superbonus» (rapidamente ritrattato).
Sul fronte internazionale non è andata meglio. Sul tema dei rimpatri e della riforma del regolamento di Dublino, citato nel discorso di fiducia, in Europa non hanno voluto neanche aprire il dossier. E l’ultima battaglia, quella sul tetto ai prezzi del gas, ha visto l’Italia sbattere contro il muro eretto da Germania e altri Paesi del nord. I «super poteri», insomma, sono restati nella fodera. O perché i «migliori» cui l’Italia si è affidata non lo erano poi così tanto. O perché le pastoie della politica riescono a imbrigliare in rigidi schemi persino i fuoriclasse. In entrambi i casi, non certo la migliore notizia per il Paese. di Carlantonio Solimene – Il Tempo
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