Aumenteranno le divergenze tra i Paesi europei come mai prima d’ora e noi andiamo incontro a un disastro economico.
Antonio Pilati, saggista, esperto di comunicazione, già componente di AgCom e Antitrust, commenta l’analisi dell’economista Gustavo Piga («il governo ha deciso che l’Italia non deve crescere»). E fa uno scenario politico. I 5 Stelle non apriranno nessuna crisi, il loro anti-atlantismo è strumentale. Anzi: potrebbero perfino prestarsi ad una raffinata operazione di palazzo. Ad alcuni piani alti della nostra Repubblica, infatti, si pensa che più questa legislatura va avanti, meglio è.
Faccio due osservazioni. La prima: il mondo non è cominciato il 24 febbraio. Nel “mondo” precedente gli Usa e la Nato hanno creato i presupposti per contrastare e ridurre lo status di potenza della Russia. Tutto questo ha favorito in Putin la decisione di invadere l’Ucraina.
D’accordo. Ma perché dice questo?
Perché porta alla seconda osservazione. È evidente che gli interessi americani e quelli europei son profondamente diversi. Washington ha trovato il modo di contrastare la Russia usando gli ucraini. L’Europa si è coinvolta nel progetto americano, dotato di una straordinaria forza comunicativa e mediatica, ma lo fa danneggiando profondamente se stessa e le sue economie. In più – ed è un punto cruciale – questa differenza di interessi non emerge.
E l’Italia?
In Europa siamo il Paese con il più alto debito pubblico e quello che avrà i danni maggiori.
Ma è proprio questo il punto. Il governo di salvezza nazionale finirà per affondarci.
Non mi sembra che abbiamo molta libertà di scelta. L’inflazione in Europa sale all’8,1%, nell’aprile 2021 era all’1,6%, mentre la stessa Commissione abbassa le stime del nostro Pil per il 2022 dal 3,1% al 2,4%. Sono due cose che non possono andare insieme. La Bce dovrà intervenire, ma i suoi interventi per noi sono un grave problema, perché se la banca centrale alza i tassi, il debito pubblico ci costerà molto di più.
Quindi torniamo all’inizio. Alternative?
Prendere quello che ci danno. Lei mi dirà: ma si poteva negoziare? Non voglio fare l’avvocato d’ufficio, ma la debolezza politica nella quale ci mette il nostro debito pubblico esorbitante non comincia con Draghi. E quando c’è una guerra, i fattori di debolezza si accrescono.
Vale anche per i trattati europei: questi trattati sono un danno.
Lo sappiamo, i trattati sono stati scritti pensando soltanto a una congiuntura favorevole, quella sfavorevole non è prevista. È un limite dell’impianto europeo. Purtroppo, la congiuntura è negativa dal 2008. E la guerra l’ha trasformata in un dramma.
Cosa succederà?
Aumenteranno le divergenze tra i Paesi europei come mai prima d’ora.
Siamo destinati a impoverirci?
Andiamo incontro ad un disastro economico. Qualcuno ha detto che potremmo tornare ad un tenore di vita precedente al boom degli anni Cinquanta. Potrebbe non essere esagerato.
I partiti sono in stato di agitazione. Sui giornali si leggono strani articoli, come quelli di Cottarelli e Monti. C’è aria di fine anticipata della legislatura?
Bisogna distinguere. Sul piano della razionalità politica astratta, la cosa migliore sarebbe votare il prima possibile, e lo abbiamo già detto. Questo parlamento è debole e incerto, politicamente delegittimato.
Questo in teoria. E nella realtà?
Secondo me la legislatura potrebbe finire soltanto per gravi circostanze imprevedibili. Siamo in periodo pre-elettorale e in tempo pre-elettorale i partiti si fanno la guerra, sia tra loro che al loro interno. Un fatto quasi fisiologico. Nelle prossime Camere ci sarà un terzo di posti in meno, e questo aumenta la concorrenza interna nei partiti. In ogni caso il punto è: i vertici cui spettano le decisioni essenziali – il Quirinale e la Commissione europea – non hanno affatto interesse a sciogliere le Camere.
Sulla guerra in Ucraina e in particolare sulla fornitura di armi la maggioranza è divisa. Conte e i suoi possono mettere a rischio il governo?
Ne dubito, la loro mi pare una posizione strumentale. Sono i parlamentari che più rischiano di non essere rieletti. Quanto al loro anti-atlantismo, non avendo i 5 Stelle una fisionomia politica definita, la stanno cercando. E la posizione degli altri partiti li aiuta a differenziarsi.
Nel Pd, Letta è passato dall’atlantismo spinto al dire che l’Europa deve spingere Putin alla pace. Adesso ha una fronda interna sulla giustizia: lui è per il no a 5 referendum, Ceccanti, Morando e molti altri sono per il sì.
L’iper-atlantismo di Letta era tattico. In questa fase, comunque, le divisioni interne al Pd riguardano un po’ tutti i temi, sia di governo, sia di altra natura.
E il centrodestra? L’altro ieri il vertice di Arcore ha sancito la divisione tra Berlusconi-Salvini da una parte e Meloni dall’altra.
Il centrodestra è diviso per ragioni relative ai rapporti e al primato tra i partiti che lo compongono. La Lega è in maggioranza e pungola Draghi; mentre il partito più draghiano in questo momento è FdI che sta all’opposizione.
Paradossale.
Sì, non per Draghi ma per la Meloni. Sulla politica internazionale è più allineata a Draghi di tutti gli altri. O meglio: era.
In che senso?
Durante la visita di Stato in America, Draghi si è mostrato più aperto al negoziato di quanto lo fosse dieci giorni prima. Letta si era già riposizionato: l’iper-bellicismo dell’amministrazione americana lo ha indotto ad essere più europeista, mentre la Meloni è rimasta allineata a Biden.
FdI ha di fatto lanciato la sua campagna elettorale a Milano, capitale produttiva del Paese, ma sulle tasse non ha battuto ciglio, perché?
Perché è un partito romano. Essere contro l’aumento dell’imposizione fiscale viene meno facile che a Salvini.
A proposito di partiti romani. Pare che a Roma qualcuno sia tentato di usare la guerra in Ucraina e lo stato di emergenza per non votare nel 2023. Possibile?
Non possiamo saperlo. Però va detto che questo parlamento è in gran parte molto malleabile, soprattutto dai piani alti della presidenza della Repubblica, dove qualcuno è riuscito nel capolavoro di fare rieleggere Mattarella. Tra l’altro, non dimentichiamo neppure che a primavera 2023 ci sono un bel po’ di nomine da rinnovare. di Federico Ferraù – Il Sussidiario