Nel 1996, la casa farmaceutica Pfizer è andata nel nord della Nigeria per testare un nuovo farmaco su 200 bambini malati di meningite. Undici sono morti, molti altri hanno subito danni permanenti. Dopo undici anni, il governo di Abuja ha fatto causa all’azienda Usa. Che si difende: «Siamo andati lì solo per fare del bene»
Kano (Nigeria)
Cavie umane: Siamo a Kano, nel nord della Nigeria, in un quartiere anonimo incuneato tra strade polverose al centro delle quali scorre a cielo aperto lo scolo delle fogne. Accanto al padre, Anas annuisce ma non sembra molto padrone dei suoi pensieri. Ha il volto esile, lo sguardo sperduto, i movimenti rallentati. Parla per monosillabi. Il ragazzo, che ora ha quattordici anni, ha il non invidiabile record di essere stato il primo ad essere stato arruolato per il test sperimentale di un farmaco – il Trovafloxacin, più comunemente detto Trovan – per il quale la casa farmaceutica statunitense Pfizer cercava l’autorizzazione da parte della Food and Drug Administration (Fda). Un test che, secondo i parenti dei bambini coinvolti, è stato condotto con l’inganno, senza fornire la minima informazione e senza ottenere quindi il necessario consenso informato.
«Lo hanno preso e chiuso in una stanza. Gli hanno dato quel farmaco e me lo hanno ridotto in queste condizioni». Mustapha Mohammed ancora si infervora quando pensa a quei giorni terribili di undici anni fa. La sua città era in preda a una spaventosa epidemia di meningite. Uomini, donne e bambini si ammalavano e morivano come mosche. Una mattina suo figlio Anas, che all’epoca aveva tre anni, ha accusato i sintomi della malattia. Lui lo ha portato immediatamente all’ospedale. «Lì, c’erano quei medici bianchi», ricorda furente Mohammed. «Mi hanno detto che lo avrebbero curato e lo hanno chiuso in una stanza. Da allora, è così: ha mantenuto lo sviluppo mentale di un bambino».
Un farmaco da un miliardo di dollari (Cavie umane)
È il 1996. L’epidemia di meningite infuria a Kano, trascinando panico e morte. Gli ospedali sono presi d’assalto. I morti sono più di 10mila; le persone infettate circa 100mila. Questa ecatombe non trova grande spazio sulla stampa occidentale. Ma la notizia raccoglie un qualche interesse negli uffici della Pfizer. La situazione rappresenta un’occasione d’oro per sperimentare il Trovan, un farmaco il cui potenziale valore di mercato è stimato intorno al miliardo di dollari. I responsabili dell’azienda decidono di cogliere la palla al balzo: tra i possibili usi terapeutici del medicinale c’è anche la cura della meningite.
Viene organizzato in fretta e furia un team: un aereo charter è spedito a Kano e, pochi giorni dopo, la sperimentazione ha inizio (su cavie umane). I medici della Pfizer isolano un reparto dell’Infectious Disease Hospital (Idh) della cittadina nigeriana, l’ospedale in cui si concentrano i pazienti e vengono fornite le cure da medici statali e da un’équipe di Medici senza frontiere. Selezionano duecento bambini per il test. A cento danno il Trovan, agli altri un antibiotico approvato a livello internazionale.
Alla fine del test, 11 bambini muoiono; molti altri subiscono malformazioni permanenti.
Difficile dire se il nuovo farmaco – o la mancata somministrazione di un antibiotico di tipo classico – abbia avuto un ruolo attivo in questo disastro. Ma sta di fatto che, dopo la sperimentazione, la Fda consente la somministrazione del Trovan solo agli adulti, prima di restringerne pesantemente l’uso. In Europa il Trovan non riceverà mai l’autorizzazione di vendita. Alla fine, la Pfizer lo ritirerà dal mercato mondiale.
«Finalità umanitarie»
La vicenda rimane sepolta per alcuni anni, ignorata sia all’opinione pubblica nigeriana che dai pazienti coinvolti. Finché, nel 2001, grazie alla ricostruzione di un giornalista del Washington Post, diventa di dominio pubblico. L’articolo del quotidiano statunitense suscita un polverone a Kano: i parenti dei bimbi morti o rimasti deformi protestano.
Accusano la casa farmaceutica di averli ingannati. Intentano una causa contro la Pfizer. Quest’ultima ribatte che i suoi ricercatori sono andati in Nigeria solo con finalità umanitarie «per combattere l’epidemia». Sotto la pressione dell’opinione pubblica, il governo nigeriano affida un’inchiesta a un gruppo di esperti medici. Il team produce un rapporto, che punta l’indice contro l’azienda. Gli esperti affermano che la casa farmaceutica non ha mai ottenuto l’autorizzazione dal governo nigeriano per condurre le sperimentazioni.
Il test – sostiene il documento – «è stato un chiaro caso di sfruttamento dell’ignoranza». La commissione conclude dicendo che la Pfizer ha violato la legge nigeriana, la dichiarazione di Helsinki sui principi etici nella ricerca medica e la convenzione delle Nazioni unite per i diritti del bambino. Gli esperti raccomandano che la Pfizer venga «adeguatamente sanzionata».
Ma nulla accade. Il rapporto è insabbiato. La causa intentata dai parenti delle vittime contro la Pfizer non ha seguito. «Troppa gente potente era coinvolta in quella storia. Probabilmente dalle alte sfere si è deciso di non intervenire», sostiene Ismayl Zubairi, un politico di Kano che nel 1996 lavorava all’Idh come infermiere. «La Nigeria è un paese estremamente corrotto. E poi all’epoca c’era una dittatura militare. È possibile che la Pfizer abbia ottenuto le autorizzazioni dal governo. Ma io ero là e di una cosa sono sicuro: non hanno mai informato i pazienti».
Zubairi (Cavie umane)
Zubairi, che ha anche perso un fratello nel test della Pfizer, non ha alcun dubbio. Siamo stati usati come cavie umane. A distanza di undici anni, non ha dimenticato quei giorni. «Mio fratello ha preso quel farmaco. Poi ha perso l’uso delle gambe. Infine, dopo tre giorni, è morto. Tutti i bambini coinvolti nel test della Pfizer hanno accusato effetti collaterali simili». Il suo racconto riecheggia quello di decine di altri genitori che hanno visto i propri figli morire, diventare storpi o sordomuti. O più semplicemente trasformarsi in vegetali, come Firdausi Madaki.
La ragazza – un volto inerme dietro un paio di occhi privi di espressione – ha dodici anni. Ne aveva appena uno quando si è ammalata di meningite e la madre l’ha portata all’Idh, dove è stata presa in cura da «quei medici bianchi». Incapace di muoversi, di parlare, persino di bere o mangiare da sola, oggi trascorre le sue giornate nel cortile della misera casa dei genitori, sbattuta su una stuoia. Non riesce neanche a coordinare i movimenti delle mani per scacciare i nugoli di mosche che le si ammassano sul volto. La madre Abu ha lo sguardo tenace, ma quando pensa a questa figlia senza futuro non riesce a trattenere le lacrime. «Che posso fare? Anche i miei parenti mi hanno abbandonato. Spendo tutto quello che ho per il mantenimento di mia figlia. E poi, che ne sarà di lei? Che vita potrà mai avere?», dice tra i singhiozzi.
Il processo ha inizio
Dopo undici anni, nel maggio scorso il governo federale nigeriano e il governo dello stato di Kano hanno deciso di passare all’azione. Hanno citato in giudizio la Pfizer in quattro procedimenti distinti per aver condotto il test senza permesso, chiedendo un risarcimento complessivo di otto miliardi di dollari e mezzo. Ora il processo va avanti, con i tempi della giustizia nigeriana. E i parenti dei bambini morti o malati sperano di ottenere qualche indennizzo.
Ma alla causa farmaceutica ostentano tranquillità. «Abbiamo fatto tutto secondo le regole. Abbiamo almeno dodici lettere di autorizzazione da parte delle autorità nigeriane», si giustifica il dottor Jack Watters, responsabile dei test clinici condotti all’estero. Quanto al consenso informato, il dottore è perentorio: «I genitori sono stati debitamente informati delle caratteristiche del test e hanno dato la loro approvazione. Posso solo immaginarmi che non lo ricordano perché, in una situazione come quella, in cui i loro figli gli stavano morendo tra le braccia, erano probabilmente sottoposti a uno stress gigantesco».